Come i più affezionati tra voi ricorderanno, qualche mese fa siamo stati in viaggio di agenzia a New York, una veloce fuga oltreoceano organizzata per festeggiare tutti insieme i 10 anni di VENTISETTE e portarci nell’epicentro in cui nuove tendenze e abitudini prendono forma e si diffondono fino in casa nostra.
In questi spazi avevamo già raccontato le nostre prime impressioni – che, complice una certa deformazione professionale, si erano soffermate sugli aspetti comunicativi del lancio del nuovo logo della città WE <3 NYC (il quale, spoiler, ha continuato a far storcere il naso ai Newyorkesi) – e avevamo elencato un breve tour di negozi e locali indipendenti che ci avevano colpito.
Ora è il tempo di spostarci, tematicamente e anche geograficamente, su un’altra sponda della narrazione intorno alla città: lasciamo i grattacieli vertiginosi di Manhattan, oltrepassiamo l’East River e mettiamo piede a Brooklyn. È infatti su questo borough, e in particolare sul quartiere di Williamsburg, che ci soffermeremo.
Non è una scelta casuale, a partire dalla nostra stessa esperienza diretta: durante il nostro soggiorno in città, infatti, è stata proprio Williamsburg a ospitarci, in un hotel che rappresenta in se stesso un manifesto dell’intero percorso di evoluzione del quartiere. Un grande edificio affacciato sul fiume e quindi con vista diretta sulla skyline di Manhattan, che concretizza nei suoi mattoni rossi e nella sua cisterna d’acqua convertita in dancefloor, tutto quello che Brooklyn è diventato oggi: alla moda ma indipendente, lussuoso e insieme creativo, all’avanguardia e storico.
Dalla Williamsburg industriale al paradiso hipster
Sviluppato alla fine del ‘700 come lotto residenziale per assecondare la crescita demografica di Manhattan, Williamsburg crebbe traendo fin da subito la propria linfa vitale dal grande afflusso di immigrazione: da un lato proveniente dall’estero (storicamente con arrivi da Germania, Austria, Est Europa e poi nel corso del ‘900 anche dall’Italia e dall’America Latina), dall’altro proprio dall’isola di Manhattan, soprattutto dopo la costruzione del Williamsburg Bridge nel 1903, che permise a migliaia di cittadini di abbandonare i bassifondi malsani del Lower East Side.
In piena realizzazione della vera natura di New York, tutta votata al cambiamento, è proprio la storia degli spostamenti degli abitanti del quartiere a modellare le caratteristiche del luogo, di cui resta traccia ancora oggi.
Già nel corso dell’Ottocento, lo spazio libero disponibile e la vicinanza al fiume favorirono la nascita di alcune tra le più grandi imprese industriali americane, tra cui Pfizer Pharmaceuticals e Astral Oil (poi Standard Oil), nonché di moltissimi moli, cantieri navali, raffinerie, mulini e fonderie che improntarono lo scenario industriale del quartiere e crearono lo “zoccolo duro” operaio dei suoi abitanti.
Negli anni Trenta, un gran numero di ebrei europei in fuga dal nazismo vi stabilì un’enclave chassidica, i cui discendenti sono ancora un tratto che caratterizza le strade del quartiere (interagendo e resistendo con i successivi cambiamenti del quartiere). Gli anni Sessanta videro invece l’arrivo di migliaia di portoricani, attratti dai numerosi posti di lavoro in fabbrica: nel 1961, infatti, a Williamsburg lavoravano quasi 100.000 persone nel settore manifatturiero (un numero ridotto a meno di 12.000 già negli anni Novanta e praticamente azzerato oggi).
La più importante evoluzione che ha finito per spazzare via l’anima working class del quartiere è cominciata all’inizio degli anni ’90, quando giovani artisti, scrittori e creativi sono stati attratti dagli affitti (relativamente) bassi e dagli ampi spazi sfitti delle ex fabbriche, nel frattempo delocalizzate in provincia o addirittura fuori dal paese. Questa nuova comunità ha vissuto i primi anni in una sostanziale oasi di autosufficienza e ha fatto fronte a problemi e stigma sociale dovuti al fatto di non trovarsi in una zona cool della città (emblematico il racconto di una giovane scrittrice che ricorda quando «Williamsburg era dal lato sbagliato del fiume» e i taxisti non accettavano corse con quella destinazione).
Con l’arrivo degli anni 2000, la digitalizzazione del lavoro, la cultura indie in rapida ascesa e soprattutto l’enorme spartiacque dell’attentato alle Torri Gemelle, allontanarsi da Manhattan ha perso velocemente il connotato di un tabù. Perché un giovane creativo avrebbe dovuto costringersi a vivere in una casa piccola e fatiscente, a un prezzo insostenibile e per di più nel centro della città che si era riscoperta, all’improvviso e drammaticamente, pericolosa?
Nel corso di pochi anni, con il consolidarsi di questo fenomeno, è avvenuto a Brooklyn, e in particolare a Williamsburg, quello che accade a tutti i quartieri che diventano velocemente “di moda”: la gentrificazione. Solo che qui siamo a New York, e tutto è più grande, più veloce, più dirompente. In un batter d’occhio gallerie d’arte, ristoranti e locali sono spuntati da ogni scantinato e vecchio negozio di quartiere per assecondare i gusti di questi nuovi residenti, giovani, altamente alfabetizzati, attivi nei campi creativi e digital e con valori ed estetiche improntate a uno stile di vita “indipendente”. Era nata la “Little Berlin” in terra americana, un paradiso hipster e alternativo a due passi dalla capitale finanziaria del mondo.
Il brand Williamsburg
Il centro hipster di Williamsburg si irradia lungo la strada principale del quartiere, Bedford Avenue, a partire dalla fermata della metro L, la prima da Manhattan. Poco importa che questa zona corrisponda alla Williamsburg storica: da quando sono arrivati a Brooklyn, gli ex abitanti dell’isola e gli hipster di tutto il paese insistono nel dire di abitare a Williamsburg, nonostante le distinzioni che fanno i nativi. Segno che il quartiere è diventato uno status symbol, un tratto di identificazione personale e sociale, un’etichetta da sfoggiare. In pratica, un brand.
Questo fenomeno non si può definire negativo in termini assoluti: nessun processo di gentrificazione lo è, in senso oggettivo. È un bene se il quartiere di una grande città, da periferico e malfamato, si arricchisce di nuovi e giovani abitanti, famiglie, infrastrutture, servizi; se in sostanza diventa più comodo e piacevole viverci. Non è sostenibile, invece, per l’equilibrio complessivo della città, se ciò viene accompagnato e anzi permesso grazie a un aumento vertiginoso dei costi richiesti, che costringe abitanti e realtà che fondavano lì la propria vita ad andarsene e rende esclusivo far parte di questo fenomeno (spoiler: è esattamente quello che è successo a Williamsburg).
Abbiamo visto come questo processo di trasformazione sociale sia iniziato negli anni Novanta, per poi esplodere con inaudita evidenza e rapidità nel post 11 settembre e negli anni Dieci del 2000, durante la golden age dell’hipsterismo (lo racconta anche il documentario Meet me in the bathroom, dedicato alla scena musicale indie newyorkese, formata principalmente da giovani artisti in fuga da Manhattan).
E negli anni successivi? Da un lato, come è normale che succeda, non appena la gentrificazione di un quartiere si avvicina alla soglia di saturazione, iniziano a delinarsi i confini della prossima zona che sarà il the-place-to-be, ancora “genuina”, accessibile e connotata dai tratti della propria eredità storica. Nel caso di New York, già a metà degli anni Dieci quartieri come i vicini Fort Greene e Bushwick o Astoria, nel Queens, stavano cominciando ad assumere queste aspettative.
Dall’altro, eventi inaspettati e così tanto influenti da modificare la quotidianità di milioni di persone contemporaneamente, come è stato per la pandemia di Covid-19, possono rimescolare le carte. Nel 2020-2022, infatti, il lockdown forzato che ha colpito (duramente) una metropoli come New York ha avuto come conseguenze l’annullamento della necessità di presidiare fisicamente il “centro” della città, tanto per il lavoro quanto per gli svaghi offerti, e contemporaneamente il desiderio di vivere in case più grandi e inserite in un contesto meno stressante e più residenziale. Tutto ciò che, ai privilegiati che già abitavano a Manhattan e a tutti quelli che prevedevano di trasferirsi a New York, l’isola non poteva offrire.
Ecco che allora Brooklyn, Williamsburg compreso, ha visto una nuova ondata di popolarità, proprio quando sembrava che il suo hype si stesse affievolendo. La possibilità di lavorare da casa, in quartieri più verdi e a misura d’uomo, (relativamente) più economici e tranquilli: negli anni della pandemia l’intera Brooklyn ha consolidato il suo ruolo come fulcro della vita dei Millennials creativi, istruiti e benestanti. Un passo in avanti, accelerato da eventi eccezionali, nel processo di gentrificazione, verso lo stadio più recente degli ultimissimi anni.
L’ultima evoluzione: un centro commerciale a cielo aperto?
Quando a inizio 2023 Hermès ha aperto un nuovo pop-up store a Williamsburg, con il progetto di espanderlo in un flagship store permanente entro il 2026, a molti abitanti del quartiere e commentatori è sembrata la ciliegina sulla torta dopo decenni di gentrificazione. Nell’arco di 30 anni, il quartiere una volta industriale si è alla fine trasformato – come emblema più evidente del più ampio scenario newyorkese – in un centro commerciale all’aperto, in cui brand di lusso da tutto il mondo fanno a gara per assicurarsi i favori di benestanti Millennials ex hipster creativi e più giovani artisti wannabee finanziati dalla carta di credito dei genitori.
Non è un caso che Williamsburg sia già un caso di studio per le trasformazioni urbane, un esempio cristallino di come le tendenze prima e i Social Media poi possano dar vita a un intero sistema culturale ed economico intorno a un quartiere con niente in più di altri e renderlo un incontenibile punto di riferimento commerciale.
Attraversato ormai da tensioni sempre più forti tra le sue recenti radici di immigrazione e il suo consolidato status presente (emblematico l’esempio, dello scorso gennaio, della protesta immediata che ha sollevato la sostituzione del cartello stradale Graham Av-Av of Puerto Rico, un riferimento alla forte eredità ispanica del quartiere), Williamsburg si sta velocemente avvicinando a somigliare più a un hub commerciale di alto livello che al quartiere di controcultura che i brand percepiscono e dipingono ai propri clienti.
L’arrivo di Hermès, che fa seguito a quello di molti altri brand globali di alto livello, i cui store si alternano (per ora, ma quando arriveranno a sostituirli?) a negozi indipendenti, ristoranti etnici, wine bar alla moda, thrift shop ricercati, è la prova insomma di un cambiamento più ampio che si sta verificando da anni: il passaggio di Brooklyn da quartiere periferico riservato a lavoro e abitazioni popolari, a rifugio post industriale per menti creative, fino a enclave esclusiva per giovani privilegiati. Tutto questo perdendo per strada, in ogni nuovo livello, uno strato della propria originalità, con il rischio di avvicinarsi sempre di più all’omologazione rappresentata dalle file di negozi monomarca sulle avenue di Manhattan che, 30 anni prima, ne avevano di fatto innescato la trasformazione.