“Saprà Sarajevo resistere alla pace? Ciò che resta del melting pot saprà resistere alla semplificazione economica e geopolitica auspicata dai grandi o finirà per arrendersi alle banalizzazioni occidentali che la danno già per musulmana?”
(Paolo Rumiz – Maschere per un massacro)
Stiamo sorvolando il suolo bosniaco da qualche minuto quando la nostra attenzione viene attratta da un particolare cromatico del territorio che si staglia sotto di noi: il paesaggio – verdissimo ma proprio di un verde sano e pulito – è scandito, a intervalli regolari, da chiazze bianchissime.
Sono cimiteri.
Ma non cimiteri come quelli cui siamo abituati noi, nella vecchia Europa, coperti di lapidi grigie, antiche, decadenti; sono cimiteri candidi, immacolati, e lo sono perché nessuno di loro ha più di 30 anni.
Sono la prima cosa che salta agli occhi, la prima impressione che ci facciamo del Paese su cui stiamo per atterrare, come a mettere subito in chiaro le cose su quanto la guerra dei Balcani abbia segnato e segni ancora il paesaggio e la quotidianità di questa terra.
L’aeroporto di Sarajevo è piccolo e ben si confà alle dimensioni che ci immaginiamo avere la Bosnia; dista solo 8-10 chilometri a sud dal centro città ed è ubicato vicino a Sarajevo Est, nei pressi di quella parte di Repubblica Srpska di Bosnia ed Erzegovina che in questi anni sta levando numerose e talvolta violente proteste per ottenere l’indipendenza dallo stato centrale.
Con il nostro taxi attraversiamo senza quasi rendercene conto un piccolo posto di blocco e, dai monti che circondano la città da cui 30 anni fa le postazione serbe di Karadzic cannoneggiavano il centro cittadino, iniziamo a scendere verso il nostro hotel.
Soggiorniamo all’Isabegov Hamam Hotel, il più antico hammam della città, una vera perla che unisce elementi storici e trash balcanico con equilibrio invidiabile, in ottima posizione per iniziare l’esplorazione della città.
Sistemati i bagagli usciamo subito: siamo infatti a metà di un soleggiato pomeriggio di ottobre e dobbiamo riuscire a esplorare la città vecchia finché la luce ce lo consente.
Primi minuti in città e la primissima impressione è di incantato stupore: la città, che non è enorme, è circondata da una splendida corona di monti che ci fanno sentire sulle Alpi austriache.
L’aria è pulita e fresca e – se non fosse per i minareti al posto dei campanili – potremmo davvero confondere il paesaggio con quello tirolese.
Attraversiamo il fiume Miljacka e subito si staglia di fronte a noi la splendida Vijecnica, la Biblioteca Nazionale: magnifico edifico moresco del XIX secolo, venne distrutto in nemmeno 30 ore dalle bombe del ’92 come ammonimento degli assedianti alla cultura degli assediati, vedendo trasformare in cenere centinaia di migliaia di volumi.
Oggi è stata ricostruita: diamo una rapida occhiata all’interno ma non entriamo in quanto temiamo di perdere le poche ore di sole a disposizione.
Preferiamo invece lanciarci nella scoperta della Bascarsija, parte ottomana e cuore turistico di Sarajevo, con negozi traboccanti di souvenir di livello trash 10 (su una scala da 1 a 9) tra cui si distinguono per distacco le stilografiche ricavate da vecchi proiettili e decine e decine di locali più o meno autentici dove fumare narghilè.
Il quartiere ad ogni modo ci piace moltissimo e, con le sue architetture e i suoi giochi di luce, si offre bonario all’obiettivo dei nostri iphone.
Nonostante i tanti negozi di scarsa qualità, Bascarsija presenta un ampio numero di attrazioni da vedere assolutamente: dalla famosa fontana Sebilj, uno dei simboli di Sarajevo con i suoi piccioni e la sua acqua magica, alla Moschea Begova, dalla Torre dell’Orologio alla splendida struttura di Brusa Bezistan.
Strutturata come un vero e proprio suq, ogni via di Bascarsija era ed è a volte tuttora dedicata a una categoria merceologica: Bravadziluk, la strada del cibo con un’altissima concentrazione di buregdzinice e cevabdzinice (ossia localini dove mangiare pita, burek o cevapcici); Kazandziluk, la via degli artigiani del rame; Curciluk, la via dei conciatori; Kujundziluk, la via dei gioiellieri.
Il pomeriggio avanza e noi camminando ci spingiamo sempre più a est, verso il cuore della città: i minareti cedono il passo a campanili, bow window e eleganti palazzi, i negozi si fanno più moderni e i locali più hipster.
Passiamo da Istanbul a Vienna nel giro di poche decine di metri.
E’ il miracolo della Gerusalemme dei Balcani, caso unico al mondo di città dove convivono le 5 grandi fedi dei nostri tempi: islam, cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, ebraismo e socialismo.
La parte asburgica (e più moderna) della città merita anch’essa un voto alto: dalle cupole dell’Istituto Bosgnacco (biblioteca, galleria d’arte, archivio e centro culturale, molto figo insomma!) alla Cattedrale del Sacro Cuore, dal Ponte Latino (dove nel 1915 Gavrilo Princip assassinò l’Arciduca Francesco Ferdinando dando il via agli orrori della Prima Guerra Mondiale) alla Piazza della Liberazione, dal Veliki Park (polmone verde della città) alla Fiamma della Liberazione.
E’ finita qui? Ma assolutamente no!
Spingendoci sempre più a est nel centro cittadino cambiamo nuovamente scenario: l’eleganza secessionista dei palazzi lascia il posto al grigio brutalisimo, ai cementi e alle linee squadrate dell’architettura socialista.
I nostri occhi si riempiono di meraviglia: eccoci nel core della città broootta per eccellenza!
În preda all’esaltazione non ci siamo però resi conto che la giornata sta volgendo al termine e che si è fatta ora di cena: torniamo pertanto nella Bascarsija e e troviamo posto nello storico Nanina Kuhinja per uno splendido pasto a base di delizie tradizionali, slow food e bio, come il bosanska loca (stufato di vitello) o il Sarajevski Sahan (verdure ripiene di carne), il tutto annaffiato da un discreto rosso bosniaco.